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sabato, Dicembre 6, 2025

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Non è un Paese per dormienti

L’Italia è un Paese che dorme con gli occhi aperti.
Un Paese dove le leggi si riformano prima di essere applicate,
e le promesse si prescrivono più in fretta dei processi.

Da mesi si parla di una riforma della giustizia.
Nel cuore del testo, la separazione delle carriere:
una linea tracciata tra chi accusa e chi giudica,
presentata come modernità, denunciata come minaccia.

Ma mentre il Paese discute di toghe,
ci sono migliaia di persone che non hanno più un letto dove dormire.
Sfrattate, invisibili, dentro una giustizia civile che impiega anni a decidere chi ha ragione.

È tutto parte dello stesso sonno:
il sonno della Repubblica.
Quello che copre ingiustizie, abbandoni, silenzi.

“Sono due anni che cerco una casa con mio figlio.
Ho un lavoro, ma nessuno mi affitta nulla. E quando finalmente trovo, arriva lo sfratto per il proprietario.”

Lei è Antonella, 42 anni, educatrice.
Ha ricevuto l’ordine di sgombero in piena estate.
Il tribunale ha deciso dopo tre anni.
Tre anni di ansia, lettere, e nessuna soluzione.

In Italia ci sono quattro milioni di case sfitte e più di 400 mila famiglie in emergenza abitativa.
Un numero che la legge riconosce, ma non affronta.

“Le leggi per l’edilizia pubblica ci sono, ma vengono finanziate a metà o mai.
È come se lo Stato avesse deciso che la casa non è più un diritto, ma un mercato.”

La casa, in Italia, è il primo tribunale:
ci si nasce dentro, ci si giudica per quello che si possiede,
e spesso si finisce condannati dal mutuo.

Gli affitti brevi e turistici hanno prosciugato l’offerta.
Chi non ce la fa, va in causa.
E lì comincia il vero incubo: la giustizia civile.

“Per ottenere una sentenza di sfratto servono in media 1.000 giorni.
E nel frattempo gli affitti non pagati diventano debiti insostenibili.”

Un sonno profondo.
E quando arriva la sentenza, troppo spesso è solo un foglio con scritto: “Eseguire lo sfratto”.

Roma, Palazzo Madama.
Il governo presenta la nuova riforma costituzionale della giustizia.
Tra gli articoli, uno spicca: la separazione delle carriere.

“Il disegno di legge prevede due Consigli superiori distinti,
uno per i giudici e uno per i pubblici ministeri.
Obiettivo: garantire terzietà e indipendenza.”

Sulla carta sembra logico.
Nella pratica, è una rivoluzione che tocca l’equilibrio più delicato dello Stato:
quello tra chi giudica e chi accusa.

“Il rischio è che i pubblici ministeri finiscano sotto influenza politica.
In un Paese dove la corruzione è sistemica, è un pericolo reale.”

La riforma promette efficienza,
ma molti temono un ritorno agli anni bui,
quando il potere decideva chi poteva indagare e chi no.

“Chi tocca un magistrato libero tocca la libertà di tutti.”

Era il 1992, un anno di sangue.
Falcone e Borsellino sapevano che la vera battaglia non era contro la mafia,
ma contro la mentalità che la rende possibile:
quella dell’obbedienza silenziosa.

Non è la prima volta che in Italia si parla di separare le carriere.
Il dibattito comincia nel 1947, durante la Costituente.
Allora prevalse l’idea di una magistratura unitaria, libera da pressioni politiche.

Poi arrivarono gli anni ’80, Tangentopoli, e la parola “toghe rosse”.
Ogni governo, da allora, ha promesso la stessa cosa:
“riformare per velocizzare”.

“Il problema della giustizia italiana non è solo di struttura, ma di risorse.
Manca personale, mancano digitalizzazioni, manca una visione.
La separazione delle carriere non risolve nulla di tutto questo.”

Ma la riforma funziona come una grande anestesia:
fa credere che si stia operando,
mentre si prolunga il sonno.

Nel 2024, un processo civile dura in media oltre 3 anni.
Uno penale, più di 1.200 giorni.
In Germania, la metà.
In Francia, un terzo.

“Il sistema è lento perché non ha strumenti,
e perché la politica usa la giustizia come terreno di scontro elettorale.”

Nel frattempo, la fiducia dei cittadini crolla.
Solo il 28% degli italiani crede che un processo porti davvero giustizia.
Il resto si arrangia.
Con l’avvocato, con la raccomandazione, o con la rassegnazione.

La giustizia non vive solo nei tribunali.
È nelle cartelle esattoriali, nei contratti, nelle multe, nei permessi di soggiorno.
Ogni giorno milioni di italiani si confrontano con la legge,
e scoprono che non è uguale per tutti.

“Quando ho denunciato un appalto truccato, ho perso il lavoro.
Il processo è ancora in corso, da sette anni.”

Una legge lenta è una legge che punisce chi la rispetta.
E premia chi la elude.

Torniamo alla casa.
A Bologna, un gruppo di studenti ha occupato un edificio pubblico vuoto.
Sono stati denunciati per invasione di edificio.
Il processo inizierà nel 2027.

“Ci hanno chiamati criminali, ma noi volevamo solo dormire in un posto asciutto.”

In un Paese dove dormire può essere reato,
la giustizia non è più solo un sistema legale.
È una questione morale.

Falcone e Borsellino parlavano di coscienza civile.
Non basta applicare la legge:
bisogna crederci.

Il sonno della Repubblica non è fatto di silenzio, ma di rumore.
Riforme annunciate, talk show infiniti,
dibattiti che si spengono quando arriva la pubblicità.

Ma la giustizia non è uno spettacolo.
È l’ossigeno della democrazia.
E quando manca, si muore soffocati dall’indifferenza.

Falcone diceva:
“Gli uomini passano, le idee restano e continuano a camminare sulle gambe di altri uomini.”

Quelle gambe siamo noi.
Ogni cittadino che non si arrende al sonno.

Non è un Paese per dormienti.
Ma chi resta sveglio paga un prezzo.
La speranza, diceva Borsellino, è un rischio da correre.
E allora corriamolo.

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